Gli occhi che guardano oltre i margini/1
Il fratello della vittima del probabile omicidio di sabato sera a Chiavazza è di qualche anno più giovane. Insegna in una scuola superiore e gioca a pallacanestro nelle divisioni regionali. Per rispetto al suo dolore domenica sera non si è disputata una partita. Ieri ha confidato ricordi ed emozioni a Il Biellese, nell’articolo che è diventato quello principale dell’edizione del martedì, la prima in edicola dopo il fatto di cronaca. «Era un ragazzo buono» ha raccontato, «non avrebbe mai fatto male a nessuno. Aveva solo bisogno di sentirsi amato, ascoltato, compreso. Sono arrivato anche a odiarlo quando vedevo i miei genitori piangere disperati. Ma poi, ogni volta che lo guardavo negli occhi, era come se vedessi il viso di un bambino impaurito, che implorava aiuto. Allora l’odio si tramutava in tristezza e in pianto». Il racconto non nasconde nulla, nemmeno i problemi di droga che hanno segnato una giovane vita: «Da ragazzino si ammalò della sindrome di Guillan-Barré che colpisce l’apparato muscolare, respiratorio e cardiaco. Riuscì a guarire ma era ingrassato molto. Aveva un aspetto che non lo faceva sentire a proprio agio e gli ha provocato un malessere profondo». La droga arrivò poco dopo: «Ha iniziato a fumare eroina a 16-17 anni e la sua vita è stata sempre più in salita, stravolta come quella di mio padre, mia madre e mia sorella. Per anni eravamo stati felici, poi la droga ha spazzato via ogni certezza. All’epoca ero poco più di un bambino. Sono dovuto crescere più in fretta». Gli ultimi mesi sono stati quelli della speranza, anche se non senza difficoltà: l’amore per una ragazza, la nascita di un figlio che però la coppia non ha potuto tenere ed è stato dato in affido (non ai nonni, benché avessero presentato richiesta), un anno di terapie in una comunità di recupero. «È stato pulito più di un anno» racconta il fratello «ma quando è tornato a casa è ripiombato nel tunnel. Siamo rammaricati, per certi versi un po’ arrabbiati anche con le istituzioni, con chi troppo facilmente liquida una persona fragile senza provare a comprendere le ragioni del suo disagio». Poi un messaggio, alle famiglie che provano sofferenze simili, ma forse a chiunque, soprattutto a coloro che non resistono alla tentazione di salire su un pulpito: «A una mamma, un papà, una sorella o un fratello di un tossicodipendente direi di urlare il meno possibile, di abbracciare forte il proprio caro, ascoltare e cercare di comprendere il suo dolore, la complessità del percorso che lo ha portato a un punto di non ritorno. Non fermatevi alla superficie, se vedete qualcosa di apparentemente insensato scavate a fondo, cercate di capire senza fretta di giudicare. Chi soffre e sta male per la droga non ha bisogno di qualcuno che lo giudichi, che lo cataloghi, ma spesso solo che lo ascolti».
Ipse dixit
“Finire morto in un bidone dell’immondizia non dovrebbe succedere, ma essere materia solo per la sensibilità, lontana dal troppo facile verdetto che sta dietro a un colpo di tastiera o al touch di un cellulare. In alternativa c’è sempre il silenzio o il conforto, come per fortuna molti hanno fatto. Perché stabilire chi è buono o cattivo, senza sapere, è davvero complicato ovunque. Figuriamoci su Facebook”
(Dalla rubrica di prima pagina non firmata “Siparietto”, su Il Biellese di ieri)
Gli occhi che guardano oltre i margini/2
Nell’edizione di sabato La Provincia di Biella ha dedicato mezza pagina a una chiacchierata con Salvatore Azzarello, 62 anni, venti dei quali passati notte dopo notte al dormitorio di Riva, principale rifugio per chi non ha un tetto sulla testa in città. Da pochi giorni è in pensione e ha lasciato il suo ruolo che lo portava a essere il volto simbolo della prima accoglienza per decine, o forse centinaia, di sconosciuti: «Una volta gli utenti erano prevalentemente italiani residenti della zona» ha raccontato. «Ci si conosceva tutti. Ora il fenomeno migratorio ha cambiato le dinamiche dell’accoglienza, con persone spesso giovani e appunto provenienti da Paesi molto lontani. Penso al caso di molti utenti di origini pakistane. Essere un operatore notturno significa essere la faccia, le braccia e il corpo di una rete sociale che a Biella è un’eccellenza. Ma questo non toglie che i problemi ci siano e pure tanti, perché i posti spesso non coprono le richieste, con le tensioni che è facile immaginare tra persone che hanno fame, freddo e lottano per sopravvivere giorno e notte. In ogni caso abbiamo sempre dato, in qualche modo, conforto anche a chi non aveva un posto letto». Quello dello spazio è un problema che il Comune, proprietario della struttura gestita dal consorzio socioassistenziale territoriale Iris attraverso le cooperative, sta faticando da anni ad affrontare. Un progetto per raddoppiare da 20 a 40 i posti a disposizione aveva trovato nell’ormai lontano 2017 fondi statali grazie al piano periferie per Riva e Chiavazza. Nel 2018 venne avviato l’iter con la gara di appalto. «Vorrei vederlo concluso da sindaco» disse il primo cittadino di allora Marco Cavicchioli (Partito Democratico). Non ci riuscì per una serie di intoppi tecnici che portarono a una revisione del progetto e a un lungo stop nei mesi della pandemia, quando l’amministrazione aveva già cambiato colore. Tuttora l’intervento non risulta finito. Quello dei senza fissa dimora invece è un problema che, secondo Salvatore Azzarello, andrebbe guardato con occhi differenti innanzitutto sul piano umano: «Agli ospiti ho sempre chiesto, sommessamente, perché venite qui? E quasi tutti mi hanno sempre detto: ho la mia dignità. Facevo la stessa domanda ad altre persone che non venivano da noi per dormire o mangiare, pur avendo problemi abitativi e di sopravvivenza. Risposta? Ho la mia dignità. Il mio lavoro consisteva nell’accogliere le persone la sera, fornendo loro quanto previsto: cibo, coperte, vestiti. E rimanere in servizio fino alla mattina dopo. Di notte uomini schivi e silenziosi parlano, si aprono e raccontano. Del mio lavoro porterò sempre nel cuore la dignità di uomini a cui la vita ha tolto tutto eppure capaci di camminare a testa alta. Ho imparato a non giudicare e apprezzare l’umanità di tutti. Mi considero fortunato, ho fatto un lavoro che amavo».
Cosa succede in città
Oggi alle 21,30 a Biella il cinema Mazzini replica, nella sala 2, il documentario “Vermeer, the greatest exhibition” dedicato alla mostra che il Riijksmuseum di Amsterdam ha dedicato nei mesi scorsi all’artista del Seicento olandere
La foto del giorno
«Cimitero di Piano Gatta, Agrigento. Ragazza subsahariana, età presunta 25 anni, alta 1.70, peso 75 kg circa, deceduta per annegamento nel naufragio del 3 ottobre 2013»: la didascalia, asciutta e cruda, sotto l’immagine di una tomba senza nome arriva da un post su Facebook pubblicato qualche anno fa da Max Hirzel, fotografo biellese. Questa immagine è tratta da un suo servizio speciale, che ha voluto chiamare “Corpi migranti”. È una raccolta di fotografie scattate tra Sicilia e Senegal, ovvero la terra dove sono sepolte le vittime dei naufragi, spesso in tombe senza nome, e quella da cui alcuni di loro sono partiti e dove i familiari aspettano mesi, a volte anni, senza sapere se il loro caro è vivo o annegato nel Mediterraneo. «Questi corpi, per quantità ed età delle vittime, rappresentano un'anomalia, che si tende a scambiare per fatalità» ha scritto Hirzel per presentare il suo reportage. «Volevo mostrare l'anomalia. Ma anche compiere un piccolo gesto, di attenzione. Ho iniziato dai cimiteri, trovando similitudini tra accoglienza dei vivi e gestione dei morti: codici, file, numeri, linee, tute, mascherine. Sono sparsi in tutta la Sicilia, cimiteri piccoli e grandi. A volte sul cemento fresco è incisa una scritta, sconosciuto nr. 25, o addirittura africana. Può sembrare incuria, invece rappresenta la difficoltà a gestire l'anomalia». Ieri il decimo anniversario di quello che, allora, era il più grave naufragio di migranti ha portato a commemorazioni e cerimonie. Per chi volesse approfondire il difficile lavoro di medici e specialisti per dare un nome a ciascuna delle vittime, è consigliata la lettura del libro “Naufraghi senza volto”, scritto dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo.