In che senso dieci anni?
Vigeva un vocabolario tutto diverso nel vecchio ospedale di Biella, chiuso dieci anni e due giorni fa. Sulle indicazioni dei reparti, per esempio, c’era scritto “Chirurgia B”. Ma tutti la chiamavano “Quarto donne”. O “Quarto uomini” se si andava dall’altro lato del monoblocco. Rischiavi di inciampare su un gradino? Un collega in camice bianco ti sfotteva ammonendoti: attento che poi dobbiamo portarti al quinto. Ovvero in traumatologia. I reparti erano conosciuti per il numero di piano. E l’indicazione “donne-uomini” indicava lo spartiacque: da un lato dell’ingresso di via Caraccio c’erano la scala e l’ascensore che portavano alle stanze riservate ai maschi, dall’altro a quelle delle femmine. Ci sarà un gergo anche laggiù a Ponderano, anche se forse non è passato abbastanza tempo per costruirci delle storie, un gergo, una comunità allargata. Visti adesso gli anni Sessanta sembrano davvero un secolo fa: le ciminiere delle fabbriche fumavano senza sosta, i servizi crescevano perché cresceva anche la popolazione, attirata da quel passaparola che diceva che “a Biella c’è lavoro”. I telai erano più per i biellesi. Gli altri mestieri erano anche per gli immigrati. L’ospedale degli Infermi diventò una sorta di esperimento sociale, un pentolone grosso come quelli del reparto cucina al piano terra, dove ribolliva il brodo per le zuppe di tutti i degenti. Ogni reparto lo era per i dipendenti, neo-assunti o più esperti: si parlava veneto e siciliano, sardo e calabrese. E, naturalmente, piemontese, i cui rudimenti venivano insegnati ai nuovi arrivati proprio tra un turno e l’altro. Era una famiglia, allargatissima. E succedevano cose da famiglia. Un corridoio seminascosto, per esempio, collegava il blocco ospedaliero con la chiesa, là nel piazzale appena fuori dall’obitorio. E in quella chiesa c’era il fonte battesimale, dove un sacerdote attingeva l’acqua da versare con delicatezza sul capo dei neonati, benedetti quasi appena nati. Al centro dell’ala vecchia invece c’era un chiostro, giardinetto per le passeggiate in pigiama e pantofole per chi si sentiva un po’ meglio. Ma anche piccolo pellegrinaggio per sbirciare dalle vetrate i più piccoli tra i piccoli, i neonati ricoverati nel centro immaturi, che crescevano pian piano nelle loro incubatrici così vicine alle finestre sul giardino. Dieci anni fa fu proprio un bimbo con la sua mamma l’ultimo a lasciare il vecchio ospedale: chiuse i battenti un giovedì sera, il 27 novembre del 2014, con lo staff del pronto soccorso a cessare l’attività appena prima. Da allora restano ricordi. Fuori e dentro: c’è una fotografia sui social di qualche medico che aveva lavorato là a lungo. Mostra un muro bianco, quello del blocco operatorio. È pieno di firme: dottori e dottoresse, infermieri e infermiere hanno lasciato il loro nome prima di chiudere tutto. Probabilmente è ancora lì, uguale a dieci anni fa.
Ipse dixit
“Non vedendo Trenitalia e Rfi particolarmente presenti, puoi convocarli e far sì che diano delle risposte non a me ma al territorio? Chiederei a te di farlo visto che noi, non ci considerano”
(Emanuele Ramella Pralungo, presidente della Provincia, all’incontro di ieri del tavolo treni, rivolto all’assessore regionale ai Trasporti Marco Gabusi. Il rappresentante di Trenitalia si è collegato in videoconferenza 55 minuti dopo l’inizio dell’incontro. Quello di Rfi non è mai arrivato. A onor del vero, nella versione originale, c’era una parola più forte di “considerano”)
Le solite due velocità
La fatica a trovare medici, che siano di base o specialisti da inserire nei reparti, e sull’altra faccia della medaglia l’alta tecnologia che rende Biella all’avanguardia per le cure e aiuta ad attirare dottori e pazienti: dieci anni dopo l’apertura della sua nuova sede, l’ospedale viaggia a due velocità. C’è il binario lento dove è finita tutta la sanità italiana: non abbastanza laureati, che si tratti di medicina o infermieristica, aziende sanitarie costrette a ricorrere ai cosiddetti “gettonisti”, liberi professionisti pagati a prestazione molto più di un dipendente, fondi straordinari per provare a ridurre le liste d’attesa. E c’è il binario veloce su cui l’ospedale di Biella corre (per fortuna) come un frecciarossa. Negli ultimi giorni sono stati presentati i dati che tornano a sottolineare l’importanza di investire in alta tecnologia. C’è stato prima il robot chirurgico, che la sanità pubblica si è potuta permettere anche grazie al contributo delle realtà non profit del territorio: Fondazione Cassa di Risparmio di Biella, Amici dell’ospedale e Fondo Edo Tempia. I 259 interventi chirurgici effettuati in un anno dalla sola struttura di urologia sono più di due ogni tre giorni. Il reparto, grazie anche alle tecniche meno invasive consentite dalla chirurgia di precisione, ha quasi raddoppiato il numero di pazienti arrivati da fuori provincia rispetto al 2019, anno di riferimento perché quello prima della pandemia. I tumori della prostata trattati sono stati il 72,6% in più sempre a confronto con il 2019. Sempre con il sostegno delle realtà non profit e con una campagna di raccolta fondi del territorio si sta realizzando anche la sala ibrida, che consentirà di operare con l’integrazione di altri strumenti, dall’ecografo alle apparecchiature radiologiche, per migliorare anche in questo caso l’efficacia del lavoro della chirurgia. Per l’inaugurazione ci vorranno altri quattro mesi, con un po’ di ritardo rispetto alla speranza di farlo entro dicembre, per il decimo compleanno della sede ai confini con Ponderano. «Molti problemi permangono» ha detto il direttore generale dell’azienda sanitaria biellese Mario Sanò alla conferenza stampa che ha fatto il punto sul progetto. «Penso per esempio alle liste d’attesa. Ma la realizzazione della sala ibrida mi rende orgoglioso». Quando si passa dai soliti social, però, l’orgoglio della gente lascia il posto a rabbia e rimpianto: pesano di più i tempi lunghi per una visita o un esame degli interventi chirurgici d’avanguardia che migliorano terapie e prognosi.
Cosa succede in città
Oggi alle 10 a Biella comincia la prima edizione del festival di studi storici “La città del lavoro”. La prima sessione è a Città Studi dove si parlerà del gioco applicato alla conoscenza della storia. Si prosegue nel pomeriggio dalle 15 alla biblioteca Frassati con l’uso di app e podcast per fare divulgazione. Alle 18 ci sarà l’ultima sessione sulla biografia della sindacalista Teresa Noce
Oggi alle 15 a Candelo parte dal centro culturale Le Rosminiane l’escursione dal titolo “Camminiamo insieme contro la violenza sulle donne” lungo un itinerario che toccherà le panchine rosse collocate nella città del Ricetto. L’iniziativa fa parte del calendario di eventi per la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne
Oggi alle 18 a Occhieppo Superiore Michele Carini presenta la sua tetralogia delle opere sommerse, composta dai libri “Giants and beggars”, “Il ragazzo del barcone accanto”, “Anime sommerse” e “L’amico di Jano”. La presentazione sarà impreziosita dalle letture di Pietro Raco e dagli interventi di arte visiva di Nicoletta Feroleto. Appuntamento a villa Mossa, ingresso libero
Oggi alle 19,30 a Biella villa Boffo è la sede della presentazione del libro “Fortunatamente nera” di Nogaye Ndiaye, alla presenza dell’autrice. Organizza Vocididonne nella rassegna dei suoi caffè letterari
Oggi alle 20,45 a Biella si può imparare a preparare una corona d’Avvento con l’associazione La Fiaba che propone un laboratorio riservato agli adulti nella sede di via Mazzini 31/a. Sarà messo a disposizione tutto il materiale necessario, in cambio di una donazione minima di 25 euro
Oggi alle 21 a Valdengo il piccolo auditorium di via Roma 103 ospita il concerto degli Sharp Four, quartetto jazz composto da Serenella Ingravallo alla voce, Sebastiano Dotta alla chitarra, Nicolò Stalla al basso ed Emilio Cuniberti alla batteria. La serata è in collaborazione con il conservatorio Ghedini di Cuneo. L’ingresso è libero
Zio Pino
Gli hanno dato un nome di battesimo i gestori della pagina Facebook del Distretto urbano del commercio di Biella: si chiama Zio Pino l’albero di Natale arrivato mercoledì in piazza Vittorio Veneto. Per adesso è spoglio e, appena collocato, ha già mosso le acque talvolta stagnanti del paesaggio social locale: costa troppo, era meglio finto, tagliano quelli dei giardini e poi ne prendono uno per le feste… Contribuiranno a decorarlo studentesse e studenti dell’Its Tam, l’istituto tecnico superiore dedicato a tessile e abbigliamento, in tempo per l’inaugurazione di sabato 7 dicembre quando si farà festa anche per la nuova piazza. Zio Pino è la punta di un abete, quindi ricavato da un albero ben più alto, anche se da solo misura dieci metri. Non ha quindi radici e, a feste finite, il suo destino sarà di diventare legna da ardere. Servirebbe un esperto per capire se la punta di un abete colossale possa essere tagliata senza pregiudicare la vita dell’albero intero. Gli esperti che si trovano su Google menzionano questa pratica con il nome di capitozzatura e la sconsigliano. Quanto al nome, meglio averne trovato uno per tempo. A Roma non lo fecero e la sagacia della gente arrivò prima: l’albero di Natale diventò Spelacchio. Che fa rima con spauracchio, quello di un nome che rovini la festa.